La parola alla parola
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La professoressa Marisa Napoli — autrice di numerosi testi didattici, usciti per i tipi di case editrici prestigiose quali Rizzoli, Zanichelli, Laterza — conduce all’Università cattolica di Milano (e per la precisione presso la Ssis, sorta di accademia dove i futuri docenti degli istituti superiori apprendono le migliori tecniche d’insegnamento) una serie di laboratori che, incentrati sulla scrittura creativa, consentono ai giovani — quelli laureati in latino e italiano — di sperimentare e acquisire una vasta gamma di competenze e abilità linguistiche, necessarie ad affrontare con maggior consapevolezza, un domani, il gravoso impegno di educare, istruendoli, gli adolescenti e i ragazzi delle scuole secondarie.
Le righe precedenti, per rendere senz’altro espliciti lo spirito e i contenuti della presente rubrica, che si preannuncia davvero interessante e che la professoressa sfrutterà per dialogare con gli ex allievi dei suoi laboratori e, specialmente, con i visitatori de «L(’)abile traccia». I quali sono dunque invitati a contattarla (l’indirizzo di riferimento è marisa.napoli@fastwebnet.it) per interpellarla con fiducia, domandandole — in merito alle dinamiche e regole teoriche su cui si fonda in genere il “bel comporre” — i chiarimenti e le delucidazioni più svariate.
Sarà anche possibile (ma solo dopo aver consultato questa pagina) spedirle per e-mail i propri inediti; la professoressa li commenterà volentieri in “La parola alla parola”, usandoli inoltre come spunto concreto per illustrare e svelare a pieno i segreti meccanismi della scrittura creativa nonché delle affascinanti discipline (l’arte retorica e la critica) che le sono strettamente connesse.
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Litote: “semplice” sintomo di civiltà
-Le figure retoriche di attenuazione c’insegnano il galateo del rispetto-
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Gentile professoressa,
grazie per la sua esauriente risposta alla mia lettera: sono decisamente d’accordo con lei.
Se la ricontatto, ora, è per inviarle (accludendolo in calce a queste righe) un articoletto che giudico ottimo per capire l’importanza della “Parola”. Lo stesso episodio, riferito in forma diversa, può essere comprensibile o meno a seconda di chi legge: a ciascuno il suo linguaggio!!
Che cosa pensa poi delle varie definizioni del tipo “spazzino-operatore ecologico”, “invalido-diversamente abile” ecc.? Basta cambiare la terminologia per migliorare la realtà o comunque rendere accettabile all’interessato ciò che può apparire sgradevole o addirittura tragico? Io non credo.
Letizia Moretti Piselli
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[NB - L’articolo che la signora Moretti Piselli aveva allegato alla propria mail, era un testo già edito: non ci è stato dunque possibile pubblicarlo. A ogni modo, l’assenza del pezzo in questione non pregiudica minimamente, qui di seguito, la chiarezza e la comprensibilità della risposta a cura della professoressa Napoli. Auguriamo, perciò, buona lettura.
Lo staff de «L(’)abile traccia»]
Carissima Letizia,
è bello quando la comunicazione a distanza, anche se non de visu, trova nella scrittura motivi per continuare a porre domande, a colloquiare, a scambiarsi idee. Tra noi due sta diventando una consuetudine.
Mi sottoponi un quesito che non è soltanto linguistico, ma investe le relazioni umane e il proprio rapporto con la realtà e il mondo.
Dal punto di vista didattico è molto importante che gli studenti capiscano che per determinare il registro linguistico è necessario tenere presenti le seguenti variabili: interlocutore (destinatario del messaggio), referente situazionale (il contesto in cui avviene la comunicazione), scopo comunicativo (effetto che vuoi ottenere). Non si parla, dunque, sempre allo stesso modo, ma il registro cambia — per scelte lessicali e morfo-sintattico-retoriche — da livelli informali a livelli altamente formalizzati, che seguono protocolli di procedure definiti, a seconda delle variabili in gioco.
Dal punto di vista retorico, poi, è esilarante quanto avviene in Esercizi di stile1 di Queneau, con prefazione di Umberto Eco, dove la sottolineatura di una scelta retorica piuttosto che di un’altra, cambia in infiniti modi una stessa storiella, che — se riferita in termini quotidiani — è persino banale. Ricordo anni fa la messinscena divertentissima di Esercizi di stile del bravo Paolo Poli, un cesellatore della parola.
Per approfondire ti invito a visitare il sito www.geocities.com/athens/olympus/6043/queneau.htm, dove si discute il problema delle illimitate possibilità della lingua e della “letteratura combinatoria”.
E, a proposito di retorica e di quanto dici, ti riporto testualmente (non per compiacermi dell’autocitazione, ma per dimostrarti come il tema da te sollevato sia da sempre alla base della mia riflessione teorica e della mia didattica) ciò che affermo nel mio I linguaggi della retorica, Zanichelli, Bologna, 1995, circa quelle figure di attenuazione dell’espressione di tipo eufemistico: “L’eufemismo — dal greco êu (bene) e ph
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Non si può fare a meno di notare che oggi non è certo l’eufemismo la figura retorica più di moda: anzi, non solo nel gergo giovanile, ma anche nei “salotti televisivi” o trasmissioni che dovrebbero essere di confronto dialettico, impera una sorta di “retorica dell’antieufemismo”, che si nutre di turpiloquio” (pp. 159-160).
Vero è che “le estremità” al posto di “piedi” sono meglio accette per bon ton, ma non riducono il dolore se c’è un callo e certamente non puzzano di meno se sono maleodoranti: ne sappiamo qualcosa salendo su un qualsiasi tram nell’ora di punta a Milano, con l’afa dell’incipiente estate.
L’espressione “non vedente” (al posto di “cieco”), invece, appartiene alle forme di litote: “La litote — dal greco litót
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La litote serve a dissimulare il pensiero, ma spesso è usata per evitare di dare l’impressione di arroganza, in quanto permette di attenuare l’espressione, pur disvelando ciò che in realtà si pensa.
Dire “non integrato”, piuttosto che “straniero”, di una persona che non riesce a inserirsi nel nostro Paese, non è soltanto una espressione linguistica attenuata, ma genera un atteggiamento mentale di apertura verso categorie di persone che si recepiscono come diverse, ma con cui ci si sente solidali. Lo stesso vale per la buona abitudine di dire “non vedente” o “non udente” invece che “cieco” e “sordo”.
In questo senso la litote si presenta non tanto come dissimulazione di pensiero, quanto come strumento di rispettosa delicatezza verso gli altri” (op. cit., p. 163).
Nella lingua wolof, uno degli idiomi senegalesi, la litote è particolarmente ricorrente ed è, come afferma la scrittrice Catherine N’Diaye, segno di un atteggiamento di delicatezza espressiva, tipico della cultura wolof: attraverso la negazione verbale del contrario di ciò che in realtà si pensa, si dimostra l’abitudine a non assalire l’interlocutore con giudizi categorici e violenti.
Se ci pensi bene, cara Letizia, le parole nel corso della loro vita (perché sono vive e nascono, crescono, si trasformano continuamente, muoiono come le persone) accumulano sopra di sé i tratti semantici che l’uso, nella storia e nelle situazioni, ha loro affidato. Una cosa è che io (e so di non essere razzista) oggi dia l’appellativo di «negro» a un uomo di colore che incontro per strada, diverso è se il senegalese Léopold Sédar Senghor rivendica la sua “negritudine”2 e per sé e per i suoi “fratelli” di colore.
Lo stesso vale per “operatore ecologico” al posto di “spazzino”: se tu pensi che molti giovani, maschi e femmine, con la licenza elementare o, soprattutto oggi, diplomati o addirittura laureati, non rifuggono questo lavoro, pur di garantirsi un minimo di reddito, perché dovrebbero trovarsi addosso (automaticamente) il carico di negatività che la parola “spazzino” può avere accumulato su di sé nel tempo e non dichiarare dignitosamente la loro mansione, sottolineandone la funzione di cura dell’ambiente?
Io credo fortemente alla stretta connessione ideologia-linguaggio, come il buon “cattivo maestro” Edoardo Sanguineti ci insegna. E credo anche che l’uno genera l’altra e viceversa, in uno scambio reciproco. A furia di nominare le cose in una data maniera, si modificano immaginario, sensibilità, esigenze e forse (è una speranza!) le azioni politiche, cui si delega l’onere di soddisfare i bisogni di una società (e così in un certo senso si reinventa la realtà).
La lingua è viva e cambia, continuamente, come la realtà che cerca di dire, raccontare, esprimere.
Cambiano le sensibilità, cambiano i rapporti sociali, cambia il rapporto col mondo.
E, a conclusione, cambierei anch’io, dunque, il titolo dell’articoletto che mi hai proposto da Un popolo, due lingue a Un parlante, molteplici lingue: chi può infatti limitare le variabili che decidiamo di fare intervenire nelle nostre piccole vite, quando ci relazioniamo con i nostri interlocutori e di volta in volta focalizziamo gli scopi comunicativi nelle svariate situazioni che la quotidianità ci riserva?
Alla prossima,
Marisa Napoli
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1 Raymond Queneau, Esercizi di stile, trad. it. di Umberto Eco, Einaudi, Torino, 2005.
2 Negritudine: movimento ideologico e letterario sorto fra gli intellettuali del mondo nero francofono, africano e caraibico. Le sue origini si possono individuare nei filoni poetici e letterari ispirati alle radici africane della cultura dei Caraibi, in particolare il “negrismo” di Cuba, iniziato nel 1927 e diffusosi poi nelle Antille Francesi. L’elaborazione della dottrina della negritudine si deve soprattutto al martinicano Aimé Césaire e al senegalese Léopold Sédar Senghor, che dal 1947 animarono la rivista «Présence africaine». Favorevole all’incontro fra la civiltà del mondo nero e la civiltà europea, soprattutto quella latina, attraverso la civilisation française tale dottrina propugnò una sintesi culturale che esalta l’apporto del carattere emozionale e antintellettualistico dell’anima neroafricana. Movimento eminentemente letterario, la negritudine esercitò una profonda influenza sulla temperie nella quale maturò il nazionalismo anticoloniale dei Paesi francofoni.
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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