Una recensione
a cura di Anna Antolisei
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È curioso, davvero curioso come un’autrice tanto certa delle sue capacità espressive, così naturalmente incline a trasporre in versi il reale e l’immaginario attraverso il più opportuno, suadente equilibrio tra ragione e sentimento, scelga di dare alle stampe una silloge quale Solchi e Nodi, facendola precedere e seguire da una ridda tanto cospicua di commenti; vuoi in relazione alla specifica raccolta, vuoi circa le precedenti opere e, addirittura, riguardo alla solidità della sua figura di poeta. Commenti esperti, lucidissimi e perfettamente in tono — beninteso — ma che paiono eccedenti, inessenziali, superflui se paragonati a ciò che la “vis lirica” della Camporesi sa dire da sé, nuda e immediata, a qualunque lettore avvezzo a nutrirsi di Poesia.
Che tale scelta sia dovuta ad una sorta d’insicurezza dell’autrice? È da escludere, come subito ci dimostra il fluire costante, privo di esitazioni che caratterizza i versi stessi, quasi più incisi nel tessuto della pagina che acquerellati su di essa. Né si può ritenere, assolutamente, che l’esubero di conferme dipenda da un dubbio costume affermatosi oggi con inusitato vigore soprattutto nella narrativa: se così fosse, ben diverse e meno impegnate sarebbero le scelte tematiche ed espositive di Caterina Camporesi.
Si può ipotizzare, piuttosto, dalla mirabile prefazione-analisi di Massimo Sannelli, la volontà di compiere un’erudita, quasi chirurgica dissezione della spinta ispiratrice dell’opera; eseguita allo scopo di confermare come e quanto la matrice di questa stessa propulsione affondi le radici in una tradizione lirica, tanto nobile e antica da risultare imprescindibile.
Qui, invece, vorremmo fermarci al più elementare “apparire” della composizione: a quello stesso “apparire” che diviene un “essere” sostanziale se si è ben determinati ad eseguire un tipo di esame giocabile solo su pochi e privilegiati autori. Alludo al compiere un etereo volo che lambisca appena la straordinaria armonia con cui la Camporesi sa avvolgere, con salda leggerezza, la parola attorno al significato; alludo al sostare solo laddove ci sembra che la Poesia raggiunga meglio il suo scopo forse primario, di certo troppo spesso dimenticato, che è quello d’incantare: incantare orecchio, mente, anima del lettore attraverso la melodia densa di significati che, dal verso, si propaga all’infinito, come una eco, in tutta la sua suggestione.
Ecco un facile esempio che, tra i molti spendibili, viene estrapolato dalle prime pagine del capitolo Solchi nei corpi: “salescende la luna tra calli e ponti/ tesse mutamenti sciogliendo giuramenti/ l’universo intanto invano stupisce/ serrando il male in trappole d’inganni”.
Si noti quanto sia carezzevole il suono dei primi due versi, collocati lì ad hoc per introdurre con ingannevole scioltezza l’avvento dei successivi, sfatanti endecasillabi che pongono invece un’asprigna ipoteca su qualsivoglia afflato d’irreale e romantica aspettativa.
Tanto avveduto quanto fascinoso ed efficace, poi, l’espediente (inconscio?) di compiere l’operazione inversa poco più tardi, quando il disincanto di “occhi di pietra dura/ dolore deposto sulla soglia” si stempera lievemente in un “lo innalzano i venti/ scompigliando”, per sciogliersi di getto nell’immagine saettante ma intenerita dei “fulmini di verità/ su onde raggianti di grano”.
Un’altra caratteristica quanto mai diretta ed immediatamente afferrabile della Camporesi sta, in quest’opera, nell’uso promiscuo del suo linguaggio: promiscuità alla quale l’autrice ricorre, nuovamente con una disinvoltura assai ben calibrata, tra il classicismo dominante nel vocabolario e nella struttura del periodo, e quel tocco di attualità che chiama in causa — sia in Solchi nei corpi, sia nel successivo Nodi nel tempo — espressioni tanto correnti nella lingua parlata, quanto incisive proprio nel sottolineare i punti dov’è maggiormente opportuno creare lo “stacco”, l’istante di stupore che dà forza (e inusitata) all’intero passaggio. “L’ideale sui campi di Marte/ inatteso siede alla tavola delle trattative/ si macchia della colpa/ d’istigazione a delinquere” sono versi, in questo senso, già esplicativi a sufficienza, ma l’effetto si rafforza all’inopinato incontro con “si fa mondo il girotondo/ quando tutti cadono a terra”. E, più avanti, le “sequenze di vite sospese/ su ponti invisibili/ generosi ricordi/ tempi supplementari/ per diventare/ quello che mai sono stati” diventano concatenazioni agonistiche che meglio non potrebbero rendere il senso di fatale irrecuperabilità delle memorie che il tempo, con somma perizia, è solito manipolare.
Ma nel contesto dell’intero compendio poetico che si dipana — ci ricorda Sannelli — tra “solchi e nodi, depressioni e increspature, picchi e crolli, gonfiori e rughe”; nella silloge che canta la vulnerabile pienezza di una comunità umana che “si riconosce nel vincolo della necessità, della decadenza e della morte” dove tutto accade una sola volta e poi è destinato a sparire, ecco che “la Parola si dà: non una ma più volte”. Ecco che mentre “rotolano idee/ in ogni dove” per uscire dai solchi che sarebbero il loro habitat; mentre anche la pagina-spazio è un’entità provvisoria, alcuni versi di Caterina Camporesi si fissano invece nella coscienza del lettore con un piglio quasi aforistico. “Troppo breve la vita per riempirla/ si colma svuotandola” ci pare, ad esempio, non solo il manifesto dell’opera stessa, ma una verità così pregnante e ineluttabile, espressa con tale melanconica accettazione che basta da sé a rendere l’aleatorietà dell’esistenza un dato che, almeno sotto il profilo letterario, pare assai meno transitorio.
Anna Antolisei
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Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001
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