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Una recensione 
a cura di Andrea Borla
 
 
 
 
 
 
Giovanni Silvestri, 
Resti diurni, LietoColle, Faloppio, 
2009
 
 
Ho iniziato la lettura di Resti diurni con in mente l’idea, forse un po’ adolescenziale e abusata, della notte come momento in cui emerge la parte più indifesa di noi stessi e, pertanto, in cui trova spazio l’animo poetico che, in diversa misura, alberga in ogni cuore. Sono bastate poche pagine per rendermi conto che il rapporto con la notte che vive Giovanni Silvestri e che ispira questa raccolta si muove in direzioni completamente diverse. 
La notte è in primo luogo un claustrofobico contenitore fatto di “[...] luminarie [che] non portano a precisi indirizzi”, segnato a malapena dal riflesso dei neon stantii “[...] dei grill notturni”. L’esistenza dell’uomo è sottile, senza peso o importanza, persa di fronte a un messaggio che non riesce a decifrare: “la posa del mio/ conoscerti è sempre stato/ un confine che chiude/ anziché avvicinare”. La distanza che separa uomo, notte e comprensione, una “[...] distanza [che] acuisce la distanza”, è incolmabile, nonostante gli sforzi profusi e il tentativo, inevitabilmente destinato a fallire, di immedesimazione con un’entità immateriale (“[...] ho ingoiato tutte le stelle/ e in cambio no, non mi diverto più”). 
Solo nei sogni l’uomo sembra trovare la dimensione a cui è destinato (“la verità l’ho scritta sul retro dei sogni”). Questa possibile evoluzione è tuttavia ostacolata da un atteggiamento di ripiegamento su se stesso del poeta, portatore di un mondo interiore che sente infinito, ma che si scontra con “cieli lavagna, immobili, biechi [...]” e dai precisi confini. 
Quando tutto sembra inevitabilmente caduco e perduto, uno spiraglio pare aprirsi nell’orizzonte di Silvestri. La notte offre infatti all’uomo una seppur minima possibilità di redenzione e di elevazione. Essa è fuga e rifugio verso l’amore, che si stempera nella liquida continuità di un ricordo opaco. È l’amore che richiede abbandono e fiducia illimitata, ma che sa ripagare chi gli è devoto (“se credi la paura smetterà di abitarti le mani”). È l’amore di una notte d’estate, smisurata e apparentemente senza fine, in cui “soprattutto [si] spandono gli odori”, che sa di pane e di ricordo, che porta sollievo e che va “oltre la forma”. 
Eppure, anche questa direzione conduce a una strada chiusa. L’amore cede il passo a una sensualità incompiuta, che ha come teatro una notte “fenice zoppa e lussuriosa”, fatta di sogni “medio borghesi” su “fanciulle che pensose si toccano, quasi controvoglia”. Al poeta, e all’uomo, non resta che contemplare il proprio stato di trance infeconda “[sorreggendosi] la fronte con la mano/ […] per poi [riconciliarsi] in sonno al complice soffrire/ della [sua] smorfia smarrita”. 
 
Andrea Borla
 
 
Le immagini sono (C) Carlo Peroni 2001 
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